Costruirsi un Dio secondo le proprie idee

Costruirsi un Dio secondo le proprie idee

Il monito di Gesù

«Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata».
(Dalla liturgia).

Gesù è triste, piange lacrime vere (il verbo originale greco indica un pianto vero, che si vede e si sente). È triste perché Gerusalemme lo ha rifiutato, ha rifiutato Dio, ha perso la grande occasione, quell’occasione che nella vita occorre saper afferrare. Questa grande occasione è detta «la via della pace». Questa espressione nella Bibbia ha un significato più ampio di quello che intendiamo noi, indica tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per stare bene, per avere nel cuore la pace e la gioia.

Perché gli Ebrei, nella loro maggioranza, hanno rifiutato Gesù? Perché non era quello che si aspettavano: infatti Signore è venuto nell’umiltà, nella normalità di una persona di umili origini. Gli Ebrei invece si aspettavano una venuta sfolgorante. E visto che il Signore non corrispondeva alle loro idee, non lo hanno accolto.

Gesù ha fatto miracoli, ma non può nulla contro coloro che hanno deciso di rifiutarlo. E piange, perché sa che rifiutando Dio, gli abitanti di Gerusalemme stanno accumulando castighi sopra la loro testa.

Questo messaggio vale anche per noi, che spesso rifiutiamo il Signore, rifiutiamo il suo messaggio di salvezza perché le cose non vanno come vorremmo noi. E questo può portarci alla rovina, in questa vita e nell’altra. Accogliamo il Signore mentre si fa trovare, perché non è detto che torni a visitarci.

AVVISO IMPORTANTE

La Santa Messa della XXXIII domenica del Tempo Ordinario, prevista per domani, è

ANTICIPATA A OGGI, sabato 16 novembre, alle ore 17.00, per indisposizione momentanea di Don Luciano, e sarà celebrata dal Vicario Foraneo Don Enrico Giovannini.

L’insistenza dei figli e la pazienza del Padre

L'insistenza dei figli e la pazienza del Padre

Dio gradisce anche l’insistenza nel chiedere, perché è testimonianza d’amore

«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».
(Dalla liturgia)

Questo brano di vangelo ci mette davanti ad una realtà che viviamo ogni giorno, e che sembra contraddire l’esistenza stessa di Dio. Se Dio è giusto, perché permette che i buoni (la vedova) subiscano ingiustizie da parte di persone disoneste (il giudice)? Se Dio è buono, perché permette che il male turbi la vita degli innocenti? Perché permette il male, l’ingiustizia, la malattia, la sofferenza, la morte? Perché sembra tardare a fare giustizia?

Il brano ci esorta a non perdere la speranza, a continuare a chiedere, fiduciosi di essere ascoltati («farà loro giustizia prontamente»). La conclusione del brano sposta l’attenzione su un altro fatto: la fede. «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Non scoraggiatevi – sembra dire il brano di oggi – se nel mondo c’è il male e c’è l’ingiustizia: Dio porrà rimedio a tutto questo, in questo mondo o nell’altro. Preoccupatevi invece di custodire e rafforzare la vostra fede. È la fede retta e operosa infatti che ci permette di vivere bene in questa vita, anche facendo i conti con il male e con l’ingiustizia, e ci permetterà di essere accolti nella vita eterna, dove il male e l’ingiustizia non troveranno posto.

Fiducia e riconoscenza: le fasi dell’amore per Dio

Fiducia e riconoscenza: le fasi dell'amore per Dio

A ringraziare fu il solo Samaritano

E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?»
(Dalla liturgia).

I lebbrosi iniziano a guarire mentre camminano. Gesù ha comandato loro di andare dai sacerdoti quando ancora i segni della lebbra erano sul loro corpo. I lebbrosi hanno obbedito alla parola di Gesù senza avere prove.

È questa fede che li ha guariti. La fiducia che quello che il Signore dice è buono per la nostra vita ci spinge ad agire anche quando sembra che le parole del Signore non abbiano riscontro nei fatti.

È questa fiducia però che permette a Dio di agire e di portare frutti di bene nella nostra vita. Il Signore vuole la nostra fede per agire nella nostra vita, non perché ne abbia bisogno (è onnipotente!) ma perché ci ama, ci stima più di quanto spesso noi stimiamo noi stessi, e non vuole agire senza il nostro consenso e senza la nostra collaborazione.

Il «culto del Tempio» e il «culto dell’Amore di Dio»

Il «culto del Tempio» e il «culto dell'Amore di Dio»

Ciò che il Signore ci chiede …

Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
(Dalla liturgia).

Celebriamo oggi la festa che ricorda la dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa cattedrale di Roma, considerata madre e capo delle chiese di tutto il mondo.

Il brano di vangelo ci riporta l’episodio della cacciata dei mercanti del tempio. Che senso ha questo episodio? Cosa facevano di male queste persone? Vendevano ai pellegrini gli animali necessari per i sacrifici e cambiavano le monete romane (considerate impure, perché portavano l’effige dell’Imperatore) con le monete degli Ebrei. Cose tutte prescritte dalla legge di Mosè. E allora? Dove sta il male? Che senso ha il gesto di Gesù?

Certo, come sempre quando ci sono di mezzo i soldi si verificavano ingiustizie, i cambiavalute e i venditori di animali se ne approfittavano (ricordiamo che il tempio di Gerusalemme, ai tempi di Gesù, era la maggiore banca del Medio Oriente), c’era un cospicuo giro di soldi attorno ad esso, a tutto vantaggio della famiglia dei sommi sacerdoti. Ma non è certo l’unica volta che Gesù si è trovato di fronte a un’ingiustizia, e non lo abbiamo mai visto passare alle vie di fatto! E allora? Cosa significa tutto questo?

Con la cacciata dei mercanti Gesù non si limita a deplorare le ingiustizie commesse da queste persone, ma mostra che il culto del tempio è oramai finito per sempre. Con questo gesto Gesù inaugura un nuovo modo di rapportarsi con Dio. Al Signore non interessano i sacrifici di animali, Egli vuole il nostro amore, il nostro cuore.

Se facciamo un’offerta, se facciamo un sacrificio, non lo facciamo per comprare la benevolenza di Dio, quasi a metterlo tranquillo per continuare a vivere come vogliamo, ma lo facciamo per esprimere amore e riconoscenza. E come possiamo allora rendere concreto il nostro amore verso di Lui? Ce lo dice il vangelo di Giovanni: «chi mi ama osserva i miei comandamenti» (Gv 14,24).

Il modo di amare Dio, di essergli graditi, è riconoscerlo Signore della nostra vita, è essere docili alla sua volontà. Dio vuole il nostro cuore, non le nostre cose. Queste sono già sue.

Shémà Israel: la domenica dell’Ascolto

Shémà Israel: la domenica dell'Ascolto

Ascoltare mette il cuore in condizione di aprirsi al bene che sconfigge anche la morte

Lo scriba che interpella Gesù aveva percepito che le pratiche rituali non sono sufficienti da sole a portare l’uomo verso Dio nel modo in cui il Padre vuole. Si fa dunque scrupolo di chiedere a Gesù, che riconosce come Maestro, quale sia la cosa più importante, ovvero il Comandamento più rilevante.

La risposta di Gesù è chiara e indica la stretta attinenza tra amare Dio e amare il prossimo.

Ma sono altrettanto significative del brano del Vangelo le due letture che lo precedono nella liturgia di oggi, 3 novembre 2024, tratte rispettivamente dal Deuteronomio e dalla Lettera agli Ebrei.

La prima ci recita la parte iniziale dello Shémà Israel contenuto in uno dei discorsi di Mosè nel Deuteronomio, ovvero quella preghiera che ogni Ebreo osservante recita almeno due volte al giorno e che costituisce le ultime parole della giornata.

Amare Dio con tutte le forze fa emergere l’urgenza dell’amore e ascoltare la Sua Parola vuol dire essere coerenti nell’amore.

Come sappiamo, secondo le risultanze storico-critiche testuali, la Lettera di San Paolo Apostolo agli Ebrei non è una lettera, non è di Paolo e non fu diretta agli Ebrei. In realtà è un sermone, in quanto non ha le classiche caratteristiche epistolari, fu scritta in pseudo-epigrafia (che allora era di uso comune e accettato) dai discepoli di Paolo, e infine era diretta ai primi cristiani provenienti dall’ebraismo.

Aggiunge però al discorso sull’amore la gratuità sacerdotale unica e piena di Gesù.

L’ascolto è dunque il protagonista di oggi nell’insegnamento del Cristo. Quell’ascolto che è preghiera e fa parte di essa quando diviene matura. L’amore è ciò che vince tutto: Gesù ci ha dimostrato che sconfigge anche la morte. Se il male non ha un valore costitutivo di sé stesso in senso ontologico, perché come diceva Sant’Agostino, è assenza di bene, e non può costituirsi ontologicamente un qualcosa che è assenza di qualcos’altro, si deduce che il male si può sconfiggere solo col bene, anzi col Bene, che è solo Dio. Il Bene, nel senso assoluto non comprende guerre, battaglie o violenza, ma l’amore. Ecco perché amare Dio è vincere il Male, e dunque risulta il bene per noi e per il nostro prossimo.

Il Regno di Dio: l’apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Il Regno di Dio: l'apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Nella spiegazione di Gesù c’è la potenza di Dio

«A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

(Dalla liturgia)

Le due brevi parabole (quella del granello di senape e quella del lievito e della pasta) hanno in comune la piccolezza degli inizi e l’inaspettata grandezza della conclusione. È la dinamica del regno di Dio: ciò che riguarda Dio ha una vita nascosta in sé.

Tante volte quando si fa qualcosa per il Signore, per la Chiesa, sembra di fare qualcosa di inutile, qualcosa di veramente insignificante. Il Signore ci raccomanda di non scoraggiarci. Il regno di Dio ha una vitalità propria, è la forza di Dio che fa crescere.

Queste parabole ci invitano a non scoraggiarci, a non demordere quando vediamo risultati non all’altezza del nostro impegno e delle nostre aspettative, e a considerare quanto sia importante ogni occasione, ogni incontro.

Una situazione apparentemente insignificante non deve diventare occasione di disimpegno o di rifiuto, perché non sappiamo quali frutti di grazia il Signore saprà trarre da essa.

Le giuste dimensioni delle cose

Le giuste dimensioni delle cose

Gesù ci invita a fare una graduatoria di ciò che è più importante

«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?».
(Dalla liturgia)

«Come mai questo tempo non sapete valutarlo?». È questa la domanda (che suona come un rimprovero) che Gesù rivolge alle folle che lo stavano ad ascoltare. Come mai sapete valutare gli aspetti secondari della vita (come il tempo meteorologico) e invece non siete capaci di giudicare il tempo in cui vivete?

Con queste parole Gesù ci richiama un altro aspetto della vigilanza: valutare le cose che accadono per essere in grado di decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è. In una parola il discernimento.

Non è la semplice osservazione delle cose, degli avvenimenti che accadono. È l’osservazione fatta con lo sguardo di chi riesce a vedere al di là delle apparenze immediate.

Per sapere vedere in questo modo non basta l’intelligenza: occorre anche la dirittura morale di chi si sforza di vivere come piace a Dio e di giudicare le cose secondo il modo di pensare di Dio. Quando consideriamo la realtà con parametri solamente umani non andiamo lontano. Lo sguardo dell’uomo è miope. Vede poco più in là del proprio naso. Lo sguardo di Dio è ampio e penetrante, e sa dare un giudizio vero su ciò che accade.

Vigilare significa anche chiedere a Dio il dono della sapienza, che è il dono che ci permette di valutare ciò che ci accade con gli occhi di Dio, l’unico che vede le cose, le persone e gli avvenimenti per quello che realmente sono e non per quello che appaiono.

L’attesa del Signore: una vita attiva nell’attuazione della Parola

L'attesa del Signore: una vita attiva nell'attuazione della Parola

Gesù ci ha raccomandato di farci trovare «svegli»

«Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.
E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!».

(Dalla liturgia).

Il Signore ci invita ad essere vigili. Essere vigili significa essere attenti, pronti per qualcosa di importante che deve arrivare. Il nostro destino, la nostra vita, non sono racchiusi nei pochi giorni che ci sono dati da vivere su questa terra. Abbiamo un traguardo da raggiungere, e su quello dobbiamo regolare la corsa della nostra vita.

«Siate simili a coloro che aspettano». Il cristiano sa che la sua storia terminerà con un incontro personale con il Signore Gesù, un incontro che sarà anche un rendiconto e un giudizio sulla propria vita, e al quale quindi ci si deve ogni giorno preparare: «siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese».

Le vesti strette ai fianchi ci riportano all’abitudine di chi lavorava la campagna ai tempi di Gesù, o di chi si metteva in viaggio: stingeva la cintura in modo che l’abito si alzasse un po’ e non intralciasse i movimenti. Le lucerne accese ci fanno capire che abbiamo bisogno della luce per capire cosa fare e dove andare. Questa espressione ci riporta da una famosa pagina dell’Antico Testamento, quando Mosè e gli Israeliti stavano per fuggire dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,11). Il messaggio è: non bisogna perdere tempo, non dobbiamo lasciare che qualcosa ci intralci. È troppo importante quello che ci aspetta!

Se la nostra attenzione è rivolta soltanto alle esigenze della vita terrena, se evitiamo, perché troppo duro o faticoso, ogni pensiero su ciò che ci sarà dopo, se le nostre speranze e le nostre energie sono spese solo per le cose di quaggiù (un maggior benessere economico, una vita più serena, una salute fisica migliore…), non solo non siamo veri discepoli di Cristo, ma inganniamo noi stessi. Intendiamoci bene: non è che queste cose non siano importanti. Lo sono eccome, ma non sono tutto. Il vero discepolo di Cristo è uno che sa che la vita è un cammino che è destinato ad una meta, e sul traguardo regola tutta la sua corsa.

Per farsi meglio comprendere Gesù ci porta un esempio preso dalle abitudini delle case signorili di una volta, è un quadretto molto lontano dal modo di vivere attuale. È la figura di una padrone che è andato ad una festa di nozze senza aver lasciato detto nulla circa l’ora del ritorno. Il buon servitore, dice Gesù, resta in piedi ad attenderlo tutta la notte per essere pronto ad aprirgli la porta di casa subito, non appena sente bussare.

Così è di noi. Il nostro Signore, vero Dio e vero uomo, dopo la sua Pasqua è tornato nella gloria dei cieli. È partito ma tornerà, e tornerà nell’ora in cui meno lo aspettiamo. Il nostro compito è di stare desti ed aspettare: nessun giorno della nostra vita deve passare senza il pensiero del ritorno imminente di Cristo. La vigilanza deve essere un atteggiamento di tutta la vita, non solo degli ultimi tempi, anche perché non li conosciamo.

Gesù ci dice un’altra cosa, che nel quadro della parabola è del tutto inverosimile, ma che si avvererà alla lettera per noi, se alla fine della nostra vita ci troverà nella fedeltà e nella vigilanza: «beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e sarà lui a servirli». Cioè noi entreremo nel regno di Dio non come servi, ma come figli del Re, che godranno per sempre della sua intimità.

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell’attualità

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell'attualità

Un rimprovero a chi pensa di poter fare a meno della Sapienza, che è amore di Dio

«Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito». Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.
(Dalla liturgia).

I rimproveri che in questi giorni leggiamo nei confronti degli scribi e farisei sono rivolti anche a noi. Anche noi, cristiani del XXI secolo, ci macchiamo spesso delle stesse colpe di quegli uomini.

In particolare questa frase sembra diretta a chi ha un compito di insegnamento nella Chiesa: Papa e vescovi certamente, ma anche preti, insegnanti, catechisti, genitori cristiani.

Quando chi deve insegnare la fede di Cristo, la dottrina cristiana, insegna qualcosa d’altro, magari solo le proprie idee, quando ripete la frase: «la Chiesa insegna questo, ma io la penso così», non solo impedisce a chi ascolta di giungere a una conoscenza piena, saporosa, efficace della novità cristiana, ma egli stesso rimane privo da quel sapere che genera amore, che diventa modo di pensare e pratica di vita, che fa vivere bene e apre la porta della vita eterna.