Gesù ci rivela tutto sé stesso e ci porta nella dimensione trinitaria

“Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo”. (Dalla liturgia) Gesù, dopo il dissidio con i Giudei sul tema del sabato, sembra andare dritto al cuore della questione: “chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. Gesù ci introduce alla relazione fondamentale della sua esistenza. Viene dal Padre e desidera mostrarci la via per giungere alla comunione piena con il Padre: la strada della figliolanza. Ora, nessuno può decidere di diventare figlio, se non scoprendo di esserlo. E Gesù si incammina come un capocordata e introduce tutti noi su questo sentiero. Davanti a tutti i più o meno legittimi tentativi di un figlio di rendersi libero dal Padre, ci ricorda che “il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non quello che vede fare dal Padre”. Gesù si presenta a noi come il Figlio generoso: vuole portare anche noi dentro questa relazione. Ci ricorda che la casa dove lui abita con il Padre è la nostra casa. Non è un luogo ma un abbraccio, una comunione profonda, senza fine. Gesù si presenta a noi come il Figlio sapiente: ci indica la strada per realizzare questa comunione profonda, è la strada che l’ha portato al dono di sé: “non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. Chiediamo che si realizzi in noi il dono del Battesimo per essere figli generosi e sapienti e, anche noi, chiamare Dio “nostro Padre”

«Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo».
(Dalla liturgia).

Gesù, dopo il dissidio con i Giudei sul tema del sabato, sembra andare dritto al cuore della questione: “chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”.
Gesù ci introduce alla relazione fondamentale della sua esistenza. Viene dal Padre e desidera mostrarci la via per giungere alla comunione piena con il Padre: la strada della figliolanza. Ora, nessuno può decidere di diventare figlio, se non scoprendo di esserlo. E Gesù si incammina come un capocordata e introduce tutti noi su questo sentiero.
Davanti a tutti i più o meno legittimi tentativi di un figlio di rendersi libero dal Padre, ci ricorda che “il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non quello che vede fare dal Padre”.
Gesù si presenta a noi come il Figlio generoso: vuole portare anche noi dentro questa relazione. Ci ricorda che la casa dove lui abita con il Padre è la nostra casa. Non è un luogo ma un abbraccio, una comunione profonda, senza fine.
Gesù si presenta a noi come il Figlio sapiente: ci indica la strada per realizzare questa comunione profonda, è la strada che l’ha portato al dono di sé: “non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Chiediamo che si realizzi in noi il dono del Battesimo per essere figli generosi e sapienti e, anche noi, chiamare Dio “nostro Padre”.

Inutile girarci attorno: il primo comandamento è l’amore

Inutile girarci attorno: il primo comandamento è l'amore

Gesù lo dice chiaramente e senza mezzi termini

«Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
(Dalla liturgia)

«Amerai». La religione non dice prima di tutto: «Fai». Oppure «Non fare». No. Il primo e il più importante dei comandi è: «Amerai».

Non che gli obblighi e i divieti, in particolare quelli dei Dieci Comandamenti non siano importanti. Tutt’altro. Lo sono e rispettarli è decisivo per la nostra salvezza. Tuttavia non sono il centro del nostro rapporto con il Signore.

La religione, prima di ogni norma e di ogni insegnamento, risiede nel cuore. Prima di ogni altra cosa è una specie di innamoramento, e di questo possiede lo slancio, il desiderio.

Se nella vita spirituale puntiamo al minimo (evitare le colpe più gravi, arrivare a Messa il più tardi possibile, occuparsi dei bisogni degli altri nella misura del minimo sindacale) se ci accontentiamo di quello che siamo nella vita cristiana, contraddiciamo il comandamento dell’amore, che è desiderio di dare sempre di più.

Non occorre essere dei teologi per capire che se in una storia d’amore ci si contenta del minimo, la fiamma dell’amore prima o poi si spegne!

Il matrimonio nella mente di Dio

Il matrimonio nella mente di Dio

Un significato che va oltre alle semplici utilità e convenienze

E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
(Dalla liturgia)

Gesù usa parole chiare riguardo al matrimonio, e al piano del Creatore su di esso. Non usa mezzi termini.

Queste parole di Gesù sembrano molto dure, eccessivamente rigorose, paiono non tenere conto delle difficoltà della vita reale. Ma non è così. Le parole di Gesù sono piene di misericordia: Egli ricorda il piano originale di Dio, e ricorda che è stato pensato per l’uomo e per la sua felicità.

Adeguarsi al piano di Dio, ai suoi progetti, anche quando la vita ci lascia pensare che non può essere questa la via per una vita piena e gioiosa, significa cercare il nostro vero bene. Certo, non sono escluse dalla vita del cristiano la rinuncia e il sacrificio, ma non vengono imposti così, senza un motivo, ma perché noi possiamo essere davvero felici.

La solidità del matrimonio fa bene agli sposi che, finché entrambi saranno in questo mondo, possono contare sulla presenza dell’altra persona, fa bene ai figli, che da una famiglia unita possono trovare il contesto migliore per crescere in modo equilibrato, fa bene all’intera società, che da famiglie solide ricava grande stabilità.

Il Signore non ci garantisce che, su questa terra, ci verranno risparmiati sacrifici e anche sofferenze. Ci garantisce che, ascoltando le sue parole, troveremo il vero bene per noi, con sacrifici e lotte su questa terra, pienamente e senza ombre nella vita eterna.

I tempi di Dio e la nostra crescita

I tempi di Dio e la nostra crescita

La guarigione del cieco di Betsaida

Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».
(Dalla liturgia)

Il cieco di Betsaida è stato guarito da Gesù. Ha recuperato completamente la vista. Ma non l’ha recuperata subito. La sua guarigione è stata una cosa progressiva.

L’incontro con il Signore ha prodotto i suoi effetti con gradualità. Il percorso di conversione, cioè di guarigione spirituale che il Signore ci indica e sul quale ci guida, non è una cosa istantanea. Certamente c’è un momento in cui il cambiamento della vita di chi decide di seguire il Signore è più risoluto, ma poi è sempre necessario proseguire nel cammino di conversione, vigilare per non tornare all’antico modo di vivere e di pensare.

Il cammino di chi segue il Signore ha bisogno di uno sforzo continuo e progressivo per non disperdere i buoni frutti che l’incontro con Dio ha portato nella nostra vita.

Gesù insiste sulla differenza fra forma e sostanza

Gesù insiste sulla differenza fra forma e sostanza

Un approccio superficiale e formalista alla Liturgia la sminuisce in termini di efficacia e forza

«Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?».

(Dalla liturgia).

I gesti rituali, le azioni di culto, non ci rendono migliori, quando non sono legati ad una vita buona, quando non sono l’espressione di un cuore puro, di un’intenzione retta. Pensare che ci sia qualcosa nella natura che automaticamente, senza il nostro impegno personale e il contributo della nostra ragione e della nostra volontà, possa renderci migliori o peggiori è un’idea pagana, è pura superstizione.

È il nostro cuore, cioè l’intenzione con cui noi facciamo o non facciamo qualcosa, che rende buono o cattivo il nostro agire, e di conseguenza rende buoni o cattivi noi.

Pregare, partecipare alla Messa, ricevere i sacramenti senza un reale desiderio di essere in comunione con Dio e di vivere come piace a Lui è qualcosa di inutile, che ci illude di fare qualcosa di buono per noi e per la nostra salvezza e che invece ci mantiene pericolosamente sulla via della perdizione.

La parabola dei semi è fondamento per comprendere il messaggio di Gesù

La parabola dei semi è fondamento per comprendere il messaggio di Gesù

Accogliere la Parola

« … Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano la Parola, l’accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno».
(Dalla liturgia)

Perché questo brano ci dice che se non capiamo questa parabola non capiremo neppure le altre? Perché questa parabola ci insegna a rapportarci in modo corretto, e quindi fruttuoso, alla parola di Dio, e all’insegnamento autentico della Chiesa che la interpreta in modo autorevole.

Se noi non sappiamo trarre frutto da quello che Dio ci insegna, cioè se non mettiamo in pratica la sua parola, tutto l’insegnamento del vangelo, tutte le pratiche religiose diventano una cosa inutile, un inutile parlare e un vuoto ritualismo che non aiuta la nostra vita e non ci giova a salvezza.

Dio ci ha dato la sua parola perché noi la prendiamo sul serio per quello che è: parola di Dio, che genera in noi la vita, che porta frutti di bene per noi e per gli altri se ci impegniamo, con il suo aiuto, di metterla in pratica.

Epifania: la prima fra le manifestazioni

Epifania: la prima fra le manifestazioni

Cosa rappresenta la solennità del 6 gennaio

La chiamiamo in diversi modi: Epifania o, in modo profano, festa della “befana”. In realtà, chi frequenta la Chiesa è al corrente che questa ricorrenza è relativa a una manifestazione (dal greco ἐπιϕάνεια, epifaneia = manifestazione). Si tratta dunque della manifestazione del Signore ai Magi.

L’esegesi moderna ci spiega che ricordiamo il mostrarsi di Gesù a tutte le genti, e dunque anche ai popoli pagani.

Madre Chiesa celebra questa ricorrenza aprendo un trittico di manifestazioni. Domenica prossima avremo infatti la solennità del Battesimo di Gesù, che indica il rivelarsi del Signore a Israele, e la domenica successiva l’auto-rivelazione del Cristo come Figlio di Dio in mezzo agli uomini, alle nozze di Cana.

È un percorso altamente significativo, perché è come se Gesù ci chiedesse di accettarlo nella nostra vita, domandandocelo per tre volte.

La solennità dell’Epifania va vissuta dunque con gioia, ed è giusto festeggiare, ma dobbiamo ricordarci della fratellanza, a cui il Cristo si riferisce, manifestandosi a tutti.

«L’Agnello di Dio … era prima di me»

«L'Agnello di Dio ... era prima di me»

In queste parole sono riassunte pre-esistenza, divinità, incarnazione, morte e resurrezione

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.
(Dalla liturgia)

L’espressione usata dal Battista, «agnello di Dio», è un espressione molto famosa. Ma qual è il suo vero significato? L’agnello era la vittima sacrificale, l’animale usato per i sacrifici di espiazione. È l’innocente che paga per i peccati di altri.

Le parole del Battista ci portano sul Calvario: Gesù è l’Innocente che, senza peccati, paga per le colpe di noi tutti. Siamo nel tempo di Natale, e questa immagine ci riporta al Venerdì Santo.

Che senso ha tutto questo? In realtà il Natale rimanda alla Pasqua, le fasce in cui Maria ha avvolto Gesù richiamano il gesto con cui il corpo morto di Gesù deposto dalla croce è stato avvolto nella Sindone, Maria che depone il Figlio nella mangiatoia richiama la deposizione nella tomba. Nella Pasqua trova compimento ciò che nel Natale si è cominciato.

La credibilità e la concretezza della nostra fede meritano coerenza

La credibilità e la concretezza della nostra fede meritano coerenza

Le Memorie di Incarnazione (Natale) e Resurrezione (Pasqua) vanno vissute nel loro significato

«Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette
».
(Dalla liturgia)

La solennità del Natale è seguita, liturgicamente, da altre feste: Santo Stefano il 26 dicembre, San Giovanni Evangelista oggi, e domani i Santi Innocenti, i bambini trucidati da Erode nel tentativo di uccidere Gesù. Queste feste sono legate in modo particolare all’Incarnazione del Signore.
Il Natale, sembra quasi banale ricordarlo, fa memoria della nascita nella carne della seconda persona della Santissima Trinità. La divina persona del Figlio, generato ma non creato prima di tutti i secoli della stessa sostanza del Padre, ad un certo punto della storia ha assunto, ha preso sopra di sé la natura umana creata. Per intervento prodigioso dello Spirito Santo la persona del Figlio ha preso carne nel grembo della vergine Maria e si è fatto uomo. Il Figlio, coeterno al Padre e allo Spirito Santo, con i quali condivide la natura divina, ha assunto la nostra natura umana pur rimanendo Dio. E perché lo ha fatto? Lo ha fatto per riportare l’uomo alla comunione con Dio, comunione che aveva perso con il peccato originale e con i peccati particolari dei singoli uomini. Dio si è fatto come noi per farci come Lui, dice un canto liturgico.

Queste verità, così semplici e elementari, un tempo patrimonio acquisito dalla nostra gente, oggi rischiano di essere dimenticate, o quanto meno messe in secondo piano da visioni del Natale molto riduttive: il Natale sarebbe, tra le altre cose, la festa dei bambini, della famiglia, della solidarietà, e chi più ne ha più ne metta. Tutte cose belle e positive, intendiamoci, ma queste cose mettono in secondo piano la verità del Natale: Dio, rimanendo Dio, ha preso su di Sé la nostra natura umana per riparare i nostri peccati e riportarci, se noi lo vogliamo, alla dignità perduta e ridarci la gioia della comunione con Lui, riportarci alla pienezza della vita su questa terra e riaprirci le porte della vita eterna. Le feste che si celebrano dopo il Natale servono a ricordarci questo. Cosa dice di questo mistero la festa di San Giovanni, che celebriamo oggi? Anzitutto ci dice che quello che viene celebrato nel Natale è vero: la prima lettura ci dice che gli Apostoli ci hanno tramandato quello che hanno visto, toccato, udito: ciò di cui hanno fatto reale esperienza. Non sono invenzioni nate da desideri, fantasie, emozioni, esperienze interiori: la nostra fede si basa su fatti realmente accaduti. Anche il brano di Vangelo insiste su questo punto: la testimonianza dell’Apostolo Giovanni è vera. «e vide e credette»: ha creduto perché ha visto. Ha visto davvero, con i suoi occhi, non ha creduto in base a pensieri, riflessioni, emozioni interiori. Noi non crediamo a fantasie, ma a fatti realmente accaduti. Se così non fosse la fede cristiana sarebbe una sciocchezza. Niente è più importante di questo: dobbiamo credere che quello che la Chiesa annuncia è vero, storicamente vero, altrimenti perché credere? Giovanni lo ripete continuamente. Si ricordi quest’altro passo: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (Gv 19,35). La risposta dell’uomo alla verità che gli viene annunciata è la fede.
Crediamo dunque a cose vere, realmente accadute, viste, udite, sperimentate da uomini come noi. E questa fede è necessaria per salvarci. Chi crederà sarà salvo, ci dice la Lettera di San Paolo ai Romani. Ma allora è solo una questione intellettuale? Se credo che certe cose sono vere sono a posto? No. La Lettera di San Giacomo dice che la fede senza le opere è morta. Se credo che quello che il Vangelo mi racconta è vero, la mia vita non può rimanere la stessa, non può continuare a trascorrere come se Dio non esistesse o come se non volesse niente dalla mia vita. La fede è un’esperienza di fiducia in una verità che ci viene detta in modo credibile, e questa verità incide sulle scelte concrete della mia vita. Se crediamo che tutto questo sia vero e camminiamo nelle tenebre, accettiamo cioè di vivere nel peccato e lontani di Dio, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità.
Questa verità, il Dio che si fa uomo, non ci viene annunciata per rovinarci la vita, per opprimere la nostra esistenza con una serie di comandamenti pesanti e di astruse pratiche religiose. Ci viene annunciata perché la nostra vita possa raggiungere lo scopo per cui è stata creata, quello cioè di vivere felici in comunione con Dio già su questa terra in cui però non mancano la sofferenza, il dolore e la morte, e in modo pieno e definitivo in paradiso. In una parola ci viene annunciata perché la nostra gioia sia piena.

La preghiera di Gesù dopo i pasti

La preghiera di Gesù dopo i pasti

Gesù osservò scrupolosamente la legge ebraica, portandola a compimento

I Cristiani, e noi Cattolici in particolare, sappiamo benissimo che Gesù non ha cancellato l’Antico Testamento, ma lo ha portato a compimento rendendo l’Alleanza con l’uomo eterna. La conferma l’abbiamo dal rispetto che il Cristo dimostrò per le tradizioni vere del mondo ebraico.

Siamo autorizzati dunque a credere che Nostro Signore adempisse a tutti gli aspetti rituali, compreso dunque quello della “Preghiera del nutrimento”.

Gli Ebrei, allora come oggi, non pregano prima dei pasti, ma solo dopo, con il Birkat Hamazòn (ברכת המזון), ovvero una serie di benedizioni prescritte dall’Halakhah (legge ebraica) da recitare dopo aver consumato un pranzo o una cena in cui si è mangiato il pane o il matzah (pane azzimo), contenenti dunque farina o segala o orzo o avena o farro.

Questo tipo di ringraziamento si fa risalire al grande patriarca Abramo, il quale, ospitando nella propria tenda, invitava gli intervenuti, dopo i pasti, a ringraziare Dio. Qualora non avessero voluto farlo, Abramo annunciava di esigere 10 monete d’oro per il pane, 10 per il vino e altre 10 per il resto del cibo. A seguito di ciò, verosimilmente tutti i commensali accettavano di ringraziare il “Dio di Abramo” (dal testo di Rabbi Moshe Weissman, Il Midrash racconta, codice ISBN: 88-86674-52-2).

Nel Birkat Hamazòn sono previste quattro benedizioni: per il cibo, in ricordo di quando il popolo ebraico fu sfamato nel deserto; per la terra, per il ricordo del raggiungimento della Terra Promessa; per Gerusalemme e il Tempio, e infine per la bontà divina di Dio.

Dopo aver scandito le benedizioni, seguono altre preghiere rivolte a Dio, che iniziano invocandolo con il termine di Misericordioso o di Clementissimo.

Questa preghiera è stata certamente recitata dopo l’Ultima Cena di Gesù.

Il rito della cena di Pasqua (o Pesàch) prevede anche altre benedizioni durante lo svolgimento, ed è prescritta anche una sorta di zuppa di erbe amare, nella quale tutti i commensali intingono il pane. Da qui l’allusione di Gesù al traditore Giuda che intinse il boccone con Lui.

Madre Chiesa ci invita a ricordarsi della generosità di Dio, prima ancora di iniziare a consumare il pasto: un’abitudine che ci unisce spiritualmente al Padre.